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Incantation – Taiwan maledetto

Ho un debole particolare per i folk horror, specie per quelli che affondano le radici in leggende o storie locali, esplorando le paure dei popoli. Da pochi giorni è uscito il videogame di Incantation, e – in attesa di giocarci – ne ho approfittato per recuperare il film omonimo del 2022.

Incantation, diretto dal taiwanese Kevin Ko, è un film che si insinua sotto pelle, strisciando tra le pieghe del cinema horror contemporaneo e piegando le convenzioni del genere found footage per restituirci una narrazione che oscilla tra il terrore primordiale e le inquietudini dell’era digitale. È un’opera che si nutre della cultura e del folklore di Taiwan, ma con un racconto che trascende le barriere culturali.

La trama è, a prima vista, semplice: Li Ronan, una madre tormentata dal passato, cerca di proteggere sua figlia Dodo da una maledizione che lei stessa ha scatenato violando un rituale sacro anni prima.
Ma la struttura narrativa del film è tutt’altro che lineare: Incantation è frammentato, va avanti e indietro nel tempo, intrecciando flashback, confessioni dirette alla telecamera e sequenze che sembrano emergere da un oscuro archivio personale. Questo approccio non è solo un vezzo stilistico, ma è funzionale a creare un’esperienza ansiogena e destabilizzante.

Il cuore pulsante del film è il suo legame con le tradizioni religiose e superstiziose di Taiwan. Ko costruisce una mitologia attorno alla figura del Buddha Madre, un’entità fittizia ma intrisa di richiami alle credenze locali. Questo radicamento nella cultura taiwanese dà al film un’identità precisa: l’orrore non nasce da entità astratte o creature ultraterrene, ma dal profondo timore reverenziale che le comunità locali nutrono verso il sacro. Il rituale è qui sia un atto di fede che un campo minato, dove ogni passo falso può avere conseguenze devastanti.

La tradizione qui viene però messa in discussione. La curiosità del gruppo che rompe le regole del rituale – documentandolo con telecamere, testimoni tecnologici moderni – riflette una tensione tra vecchio e nuovo, tra sacralità e spettacolarizzazione. Il risultato è un commento implicito su come la tecnologia moderna possa amplificare le nostre paure più antiche, rendendole ancora più ineluttabili.

Il found footage è spesso un espediente abusato nel cinema horror, ma Incantation lo gestisce con intelligenza, facendone un buon veicolo d’angoscia. il linguaggio visivo è integrato nella narrazione. Le telecamere amatoriali, i nastri di sicurezza e persino le riprese dai cellulari non sono solo espedienti per dare un senso di realismo: diventano strumenti narrativi, parte di un racconto che si costruisce attorno all’idea di testimonianza e frammento.

Il film non fa dei jumpscare il centro del meccanismo della paura, piuttosto, costruisce un’atmosfera di inquietudine che cresce inesorabilmente. Le immagini disturbanti – gente che si sbatte la testa contro le superfici, simboli misteriosi dipinti su corpi, fogli, pareti – rafforzano l’immersione in un contesto in cui il confine tra realtà e soprannaturale è sfumato.

Il film richiama ovviamente classici del genere come The Blair Witch Project, The Medium, per certi versi anche REC, ma si distingue per la mescolanza di folklore, ritualità e angosce moderne, e anche per il suo approccio emotivo. La relazione tra Ronan e Dodo è il fulcro emotivo della storia, un legame che dà profondità e umanità a un genere non di rado popolato da personaggi superficiali. Ronan non è solo una madre in fuga da una maledizione: è una donna che combatte contro il peso della colpa e della disperazione, una figura tragica che non può fare altro che cercare di salvare ciò che ama, anche a costo di sacrificare se stessa.

Ko manipola lo sguardo dello spettatore, alternando piani sequenza angoscianti a inquadrature volutamente sporche, caotiche, talvolta incomprensibili. La scelta di non rendere tutto esplicito amplifica il senso di smarrimento: l’orrore non è mai mostrato completamente, ma suggerito, nascosto nei dettagli, nei margini dell’inquadratura. È un approccio che richiama grandi maestri dell’horror atmosferico, da alcuni lavori di Tobe Hooper ad altri di Kiyoshi Kurosawa, ma con una sensibilità moderna che riesce a trasformare il found footage in qualcosa di fresco e vibrante.

Se la regia orchestra bene questo meccanismo, la fotografia di Chen Ko-chin dà vita all’atmosfera opprimente di Incantation. La palette cromatica gioca un ruolo importante: toni spenti, desaturati, dominati da grigi e marroni, evocano un senso di rovina e decadimento. Gli spazi bui, i corridoi angusti, le luci fioche che illuminano appena i volti dei personaggi in certe sequenze, contribuiscono a creare un mondo visivamente claustrofobico, in cui il male sembra annidarsi ovunque, ogni volta che la maledizione si manifesta.

Un elemento particolarmente interessante è l’uso delle fonti di luce. Spesso, la luce proviene da dispositivi tecnologici – torce, schermi, persino neon tremolanti – sottolineando il conflitto tra modernità e tradizione che attraversa gran parte del film, specie nelle ambientazioni rurali. La tecnologia, che dovrebbe proteggere e razionalizzare, diventa qui uno strumento atto a triggerare la maledizione.

Al di là della regia e della fotografia, ciò che rende Incantation peculiare è il suo legame profondo con il folklore taiwanese, dicevamo all’inizio. Il film attinge a credenze locali, ma lo fa con rispetto e autenticità, evitando di trasformarle in semplici espedienti narrativi. La figura del Buddha Madre, sebbene fittizia, richiama le divinità e gli spiriti venerati nei villaggi rurali, creando un senso di sacralità che permea ogni scena.

Questa sacralità, tuttavia, non è mai consolatoria. Al contrario, il sacro è rappresentato come qualcosa di oscuro, di pericoloso, che deve essere rispettato e temuto. Quando i personaggi violano le regole del rituale si prova un senso di ineluttabilità: le loro azioni hanno conseguenze, e queste conseguenze sono irreversibili. Il conflitto tra il desiderio umano di conoscenza e il prezzo da pagare per ottenerla è un tema non nuovo, ma qui ben espresso

Nonostante i suoi punti di forza, il film cada talvolta in alcuni cliché del genere, come il bisogno costante di giustificare la presenza della telecamera anche in situazioni al limite del credibile. Inoltre, la struttura frammentaria è coraggiosa e interessante, ma non semplice da gestire, e la confusione narrativa è non di rado dietro l’angolo, alcuni passaggi sembrano un po’ deliberati e mal collegati. In generale, Incantantion sembra durare poco più di quanto dovrebbe. Infine, alcuni momenti che dovrebbero essere di terrore risultano affettati, forse eccessivamente costruiti per generare tensione. Limiti perdonabili di fronte a un film che rimane molto solido, ma presenti.

Il finale è efficace, dà un senso di compiutezza alla storia senza rinunciare alla sua ambiguità.

Pur non risultando una novità assoluta e non esente da difetti, Incantation si distingue come un’opera ambiziosa e profondamente radicata nella cultura del suo paese, abbastanza peculiare nel suo intrecciare folklore taiwanese e modernità in una storia permeata di redenzione e senso di colpa sotto l’ombra di un’ineluttabile maledizione.

VOTO: 7.5/10

Gero Miccichè
Gero Miccichèhttps://livellosegreto.it/web/@Eragal
Development Director di Electronic Arts, dove ha lavorato su GRID Legends, Need for Speed e adesso Battlefield. Vanta una lunga esperienza nella produzione in ambito televisivo, editoriale e audiovisivo, ricoprendo anche il ruolo di General Manager e Direttore Editoriale dell’emittente Teleacras. Per Gameloft ha prodotto Dragon Mania Legends e Disney Getaway Blast, anche qui partecipando attivamente alla produzione narrativa. Tra i fondatori del magazine letterario El Aleph, ha pubblicato racconti su diverse riviste e dal 2011 al 2017 è stato Direttore Artistico della rassegna letteraria televisiva ContemporaneA, dedicata alle nuove voci della letteratura italiana. Ha scritto e condotto svariate trasmissioni TV, fra cui la rubrica "Libri da ardere" e lo show videoludico GameCompass, del quale è stato direttore della testata giornalistica online. Giurato dei prestigiosi BAFTA Awards, è docente di Produzione e sviluppo di videogiochi presso la Digital Bros. Game Academy. Nel 2011, è stato insignito del premio Ignazio Buttitta e del premio Telamone per l'attività culturale, e nel 2022 ha vinto il DStars Awards, categoria “Far Star”, "per il suo contributo straordinario nello sviluppo da italiano in uno stato estero”. È fra i 100 sviluppatori italiani più importanti secondo la classifica di StartupItalia.
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