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Un lauro da genio minore

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Perché assegnare un Nobel a Francesco Guccini: breve analisi letteraria – superficiale, non esaustiva e dichiaratamente di parte – dell’opera musicale del Maestrone.

Lo so, con un titolo del genere ho già decimato i potenziali lettori del presente articolo, ma siccome lo sto scrivendo per puro diletto e «vendere o no non passa tra i miei rischi», posso tenerlo buono: del resto tutto è cominciato qualche settimana fa, quando il Maestrone nazionale, ospite su Rai3 a Le parole della settimana di Massimo Gramellini, commentava con i soliti toni un po’ borbottoni il Nobel per la letteratura vinto da Bob Dylan nel 2016. “E in effetti spero che prima o poi si accorgano anche di me” aveva dichiarato in più di un’intervista dopo l’assegnazione del più importante premio letterario al mondo, scherzando, ma nemmeno troppo.

«È difficile spiegare, è difficile capire, se non hai capito già.»

La mia prima reazione alla lettura di quell’intervista è stata quella di sorridere, e non perché personalmente non ritenga Francesco meritevole di tale riconoscimento: chi conosce la mia anima gucciniana sa che se dipendesse da me avrebbe il diritto di vincere pure la finale di Masterchef. Il motivo del mio sorriso è data dal fatto che, ogni volta che parlo del mio cantante pavanese preferito, la reazione media è riassumibile come segue: “ah, ti piace Guccini. Ma perché?”. Come “perché?”! A me non è mai capitato mi chiedessero perché, neanche quando ammetto di conoscere Un nuovo bacio di Gigi D’Alessio (meglio nota come “le domeniche d’agosto”), al limite qualche insulto, ma mai una sincera curiosità riguardo le ragioni di questa scelta. Invece con Guccini è sempre così, addirittura recentemente un mio amico e collega, con cui condivido tra le altre cose anche i gusti musicali, mi ha apostrofato con un “questa non te l’ho mai capita”. Sarebbe troppo facile citare Vedi Cara, ma non è neanche quello il punto: è che non c’è proprio niente da capire. Per molti Guccini è sempre un “troppo”: troppo deprimente, troppo monotono, troppo politicizzato, addirittura troppo vecchio, come se il fatto di avere 31 anni mi autorizzasse ad ascoltare solo coetanei (personalmente, piuttosto che ascoltare Anna Tatangelo, per tornare al pezzo citato prima, preferisco dichiararmi socialmente già in età pensionabile).
Tornando al punto, non contesto il “troppo”, che per me è un indicatore adeguato ad esprimere l’intensità e la forza con cui Guccini comunica attraverso le sue canzoni, proprio perchè è veramente così: chi ascolterà Cirano, probabilmente piangerà, chi ascolterà La Genesi si troverà a ridere a crepapelle, chi ascolterà La locomotiva avrà voglia di organizzare una rivoluzione in pausa pranzo, e chi ascolterà Farewell chiamerà la fidanzata del liceo implorandola di “lasciare portarsi via” per un’ultima notte. Non ci sono mezze misure, non c’è speranza: se scatta la magia – e non è detto che scatti, ma se scatta… – una canzone di Guccini travolgerà fino all’ultima cellula del corpo, risveglierà un’emozione sopita, spalancherà un abisso profondo dell’anima. Perciò, posso capire che per molti sia “troppo”, ma è l’unica accezione in cui posso considerare passabile l’accostamento di questo avverbio alle opere del Maestrone.

«Negro, ebreo, comunista»

Passando agli aggettivi che accompagnano più frequentemente il “troppo” e che elencavo poco prima, su quelli invece c’è veramente poco da dire: è estremamente difficile etichettare un artista che ha firmato opere talmente varie e diverse tra loro, e chi lo fa dimostra di conoscere solo una piccola parte dell’opera gucciniana. Francesco è tutto e il contrario di tutto: a chi dice che è deprimente farei ascoltare l’intera Opera Buffa, a chi dice che è solo un autore politicizzato farei ascoltare poesie d’amore come Vorrei o spaccati di vita quotidiana come Quattro stracci o Scirocco (a mio parere quest’ultima, tra l’altro, opera magistrale dal punto di vista musicale), a chi mi dice che è monotono e soporifero farei ascoltare alcuni ormai celebri live de L’Avvelenata (“a sedeVe!”, ammoniva il pubblico in un noto concerto) o alcune versioni, sempre live, di Un altro giorno è andato e della stessa La locomotiva. In altre parole, è quasi impossibile incasellare Guccini e la sua opera in un’unica accezione, se non quella del compositore e cantautore più vario che l’Italia abbia conosciuto negli ultimi decenni del ‘900.

«Ed io, burattinaio di parole»

La verità è che Francesco Guccini è tutto e il contrario di tutto, sperimenta stili musicali e narrativi e li cambia con una nonchalance che rende difficile descrivere le caratteristiche della sua opera nel suo complesso. Da un lato c’è la sua maestria nel disegnare con le parole scene, eventi e ambientazioni con impressionante precisione: prendiamo Scirocco (ma potremmo prenderne tante altre), canzone che ha il potere di farci ritrovare tutte le volte, sin dall’ascolto dei primi versi, lì in via dei Giudei a sbirciare dalla vetrina del bar, distinguendo chiaramente il nostro protagonista, con la sua «solita faccia aperta ai dubbi, e un po’ di rosso – routine – dentro al bicchiere» e l’arrivo della donna in “abito di percalle”, descritto in un modo tanto magistrale da riuscire a immaginare persino le cuciture di quell’abito. Poi, nella stessa canzone, la magia: frasi come «e le lacrime si aggiunsero al latte di quel the», esempio perfetto della capacità di Guccini nel dire una cosa senza dirla. Improvvisamente smette di descrivere una situazione, non dice “la donna scoppiò a piangere” ma prosegue a raccontare la storia senza raccontarla: la accenna, in modo che la narrazione possa tesserla l’ascoltatore, disegnarla a propria immagine e somiglianza. Come “i quadri, i soprammobili” di Incontro, dove il “color nostalgia” sarà diverso nell’immaginario di ogni ascoltatore, e sarà quello delle stoviglie della propria casa d’infanzia; o ancora la città «già nostra e ora straniera, incredibile e fredda», nella canzone Bologna, ma che, per chi ascolta, diventa inevitabilmente qualunque posto o città in cui si è cresciuti, e di cui da adulti si ha una percezione diversa.

«Ma se la investi di ironia tragica»

Un altro meraviglioso espediente dell’opera gucciniana è quel rapporto diretto in certi casi instaurato con l’ascoltatore, la maggior parte delle volte attraverso quell’ironia sottile che si insinua all’interno di una canzone, a volte quasi fuori contesto, ma al contempo sempre meravigliosamente al posto giusto. Andiamo da pezzi completamente permeati di ironia amara come Quattro stracci, il cui “la complessa tua semplicità” – con quel “semplicità” quasi sputato addosso – è uno degli insulti peggiori che si possa immaginare di ricevere, a versi in cui l’ironia fa capolino, quasi accennata in una sorta di estemporanea ricerca di complicità con l’ascoltatore: penso a Inutile, dove Francesco non si limita a raccontare di aver pucciato i piedi in mare, ma se ne esce con un «compiendo poi quel rito inevitabile e abusato, corremmo coraggiosi e scalzi lungo la battigia». Quanta ironia c’è in quell’ “inevitabile”? Io ce lo vedo lui, con la sua austera dignità da gatto di montagna, “costretto” ad abbandonarsi a un atto tanto scontato quanto imbarazzante e dovuto in situazioni del genere. È meraviglioso l’ammiccamento all’ascoltatore nello scrivere quella frase, che spicca ancor più in un contesto in generale della canzone decisamente triste e deprimente. Anche il suo «pensavo – farlo o no? parlare o no? – restare insieme e poi cambiarsi vita» è un rivolgersi intimo all’ascoltatore, un confidarsi nel bel mezzo del racconto, quasi un chiedergli un consiglio come se stesse anche lui lì su quella spiaggia piovosa con l’autore, a incoraggiarlo ad esprimere a quella donna quello che prova, sapendo già che non lo farà. Questo è teatro partecipato, è quasi metaletteratura. Di sicuro, è un modo unico e tutto gucciniano di scrivere canzoni.

«La routine dentro a bicchiere»

Anche il parlare per metafore, a volte chiare e cristalline come il sole, a volte più vaghe e soggette all’interpretazione dell’ascoltatore, è una delle caratteristiche principali dell’opera gucciniana. Dai pezzi della gioventù (Noi non ci saremo) a quelli della maturità (L’ultima Thule), da quelli più malinconici (Canzone quasi d’amore) a quelli più impegnati (Eskimo), da quelli più romantici (Vorrei) a quelli più arrabbiati (L’avvelenata) la canzone di Guccini è tutta un’enorme figura retorica. Riesce a commuovere, raccontare, convincere, persino insultare, tramite metafore e similitudini, e non mi viene in mente nessun altro in grado di usare questi espedienti linguistici con tale precisione. Maestri come Fabrizio de Andrè o Giorgio Gaber hanno fatto un uso altrettanto splendido delle figure retoriche, ma mai, a mio parere, nella maniera delicata, poetica e così perfettamente allusiva di Francesco Guccini. Tralasciando la già citata Scirocco, piena di simili giochi linguistici, pensiamo subito alla forza simbolica di alcuni immagini evocate ne La locomotiva, come “la bomba proletaria” o la “forza cieca di baleno”. L’uso della sinestesia è evidente in canzoni come Il pensionato in cui parla di «odore quasi povero di roba da mangiare» o quello della metafora, nello stesso componimento, quando per descrivere un funerale impersonale, ipocrita e borghese, si limita a riferirsi alla presenza del «marmo con l’angelo che spezza le catene», immagine scontata e vuota dell’ostentazione dovuta di un lutto, spesso, poco sincero. Ancora, la metafora e la similitudine sono assolute protagoniste di quella che è forse in assoluto la canzone più simbolistica dell’opera gucciniana, Una canzone, dove lo stesso autore paragona i suoi scritti, tra le altre cose, a «un prisma di rifrazione
cristallo e pietra filosofale, svettante in aria come un falcone», insieme a Dio è morto dove è invece l’epifora, («nelle auto prese a rate Dio è morto»), a fare da padrone.

«Queste cose le sai perchè siam tutti uguali»

Un discorso simile, per quanto riguarda l’unicità del tratto gucciniano, vale per l’umanizzazione dei personaggi: per certi versi l’album Ritratti può richiamare l’Antologia di Spoon River del già citato De Andrè, ma ascoltandole entrambe è facile rendersi conto delle differenze tra le due opere. De Andrè narra le disgrazie di personaggi comuni, quasi sempre reietti, poveri e sfortunati, elevandoli a simbolo delle ingiustizie e della cattiveria umana; dall’altra parte, Guccini narra le gesta di personaggi mitologici, letterari e storici mischiando la finzione e la storia, il passato e il presente, l’umano e il divino. Questo gli permette di utilizzare un immaginario comune e renderlo veicolo di altri spunti letterari, la denuncia sociale, la politica, gli istinti e le debolezze umane, ma ancor prima, sempre, la caratterizzazione profonda del protagonista dell’opera (Ulisse, Cristoforo Colombo,  Filemazio, Don Chisciotte …) che ci appare, più di tutto, totalmente e disperatamente umano. Finiamo con il sentire quello che il soggetto sente, a percepire e a condividere le sue speranze e le sue paure, a tifare per lui e a soffrire con lui: Cristoforo Colombo solo e pieno di dubbi in mezzo al mare, con il peso della responsabilità di un equipaggio trascinato con lui in una folle avventura; Don Chisciotte e la sua lucida follia, la consapevolezza di essere creduto pazzo nella sua perseverante ricerca della giustizia e della verità; Odisseo, o Ulisse, ormai vecchio e stanco, con il solo e confuso ricordo delle avventure del passato a fargli compagnia, e tanti altri, eroi, miti, resi assolutamente e semplicemente umani. Nessuno è a mio parere riuscito a raggiungere un tale livello di introspezione, né di immedesimazione in un personaggio da parte tanto dell’autore stesso quanto degli ascoltatori, non in musica, tantomeno in letteratura.

«Ti diplomerò in canti e in vino»

Ci sarebbe tantissimo altro da dire sulla musica e sulla poetica di Francesco Guccini, e come tutte le volte che spendo qualche parola verso un artista che considero di immensa levatura, la sensazione è sempre quella di aver detto davvero troppo poco, e in maniera frettolosa e superficiale: per dirla, ancora una volta, a parole sue «se fossi accademico, fossi maestro o dottore, ti insignirei in toga di quindici lauree ad honorem». La verità è che per rendere un giusto tributo a Francesco Guccini bisognerebbe dedicargli qualcosa di certamente più impegnativo di questo semplice articolo, e che la sua recente dichiarazione sul Nobel è stata chiaramente una scusa per porre il mio omaggio a una figura che musicalmente mi ha dato tanto, ormai legata tra l’altro – in maniera indissolubile – a ricordi carissimi della mia vita. Ma, tralasciando l’importanza che ha rivestito e riveste tutt’ora a livello personale, è innegabile che una parte fondamentale della mia formazione umana derivi dall’ascolto di Francesco Guccini, la cui poetica e pensiero hanno determinato in buona parte il mio gusto, la mia crescita personale e il mio orientamento culturale. Alcune opere di Guccini mi hanno aiutato a capire l’animo umano e a comprendere meglio me stessa, altre mi hanno avvicinato alla storia e alla letteratura, altre ancora mi hanno sensibilizzato a tematiche sociali sulle quali ho formato un mio personalissimo pensiero. Non so se questo corrisponda all’idea di Alfred Nobel quando ha definito i “considerevoli benefici all’umanità” criterio di assegnazione dell’illustre riconoscimento, ma di sicuro – per quel che può valere – corrisponde alla mia.

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