Home Cultura Olivetti, Moulinex, Chaffoteaux et Maury, di Quim Monzó

Olivetti, Moulinex, Chaffoteaux et Maury, di Quim Monzó

0

L’universo narrativo di Quim Monzó è figlio delle circostanze storiche e personali che hanno riguardato la sua vita, e che lui stesso ha trasfuso in iperboli sulla pagina scritta. L’estetica di Monzó è chiaramente informata alla pop-art, ai beatnik, al cinema underground e, in misura minore, al testualismo degli anni ‘70. Queste componenti estetiche e ideologiche erano evidenti nei suoi primi lavori, e Olivetti, Moulinex, Chaffoteaux et Maury (edito in Italia da Marcos y Marcos) è in tal senso un punto di svolta nella sua narrativa, non solo perché sarà il libro che gli regalerà una prima vera notorietà (e i primi premi della critica), ma che segna anche il passaggio da uno sguardo intriso di etica post-sartriana/brechtiana a una di stampo più barthesiano.

In Olivetti, Moulinex, Chaffoteaux et Maury Monzó adotta uno stile agile, di grande freschezza e dinamismo, intriso di un’ironia mordace che rende questi 16 racconti piccoli gioielli di storie umane portate all’estreme conseguenze. C’è un sapiente equilibrio di componenti oniriche, erotiche e ludiche che danno forma a un immaginario sensuale e vivido, altamente e ironicamente autoriflessivo. In racconti come “Il regno vegetale“, la metonimica prima persona singolare che caratterizza i precedenti racconti si estende a una prima persona plurale atta a dar voce a una generazione – la sua – che anela la fuga da una Catalogna al tempo repressa, schiacciata dal franchismo, verso un Nord in cui libertà sessuale, sociale e politica sono realtà esperibili.

Monzó mette in piedi una parodia intertestuale che raggiunge il culmine in racconti come “To Choose“, in cui il profondamente annoiato protagonista realizza di dover uccidere qualcuno pur di uscire dal proprio stato di noia, senza alcuna ragione apparente (e c’è un che di gidiano in queste premesse), nella speranza che il proprio desiderio privo di movente invece di rimorso o angoscia possa portargli leggerezza e libertà. Sembra esserci un richiamo costante al mito generazionale del “Nord Enllà” tanto decantato da un suo conterraneo, il poeta catalano Salvador Espriu, con la celebrazione del movimento costante, del viaggio illimitato “on the road” e della libertà sessuale sfrenata a esso collegati. Tutto visto sotto la lente d’ingrandimento dell’umorismo amaro e calato nella chiave narrativa della parodia. “La dama salmone” è ad esempio la parodia perfetta dell’avventura erotica on the road. In questa storia, il protagonista “liberato” di Monzó si abbandona alle sue fantasie sessuali che coinvolgono la signora scandinava che siede di fronte a lui in uno scompartimento del treno solo per vedere poi quelle fantasie scivolare nella frustrazione della vita quotidiana, quando la signora esce dal treno per emergere nella più banale delle circostanze.

Il racconto “Globus” è forse la demistificazione più toccante dell’ “on the road” generazionale: racconta la storia di un uomo che aveva trascorso i suoi primi vent’anni viaggiando con un circo e non aveva mai soggiornato due volte nella stessa città. Al suo ventesimo compleanno, il circo si dissolve e l’uomo decide di provarci come colono. Per i successivi vent’anni diventa impiegato in una stazione ferroviaria. Di notte, tutti i giorni, sogna quello che aveva fatto quello stesso giorno nella prima metà della sua vita, finché, a quarant’anni, l’incubo di se stesso lo sveglia e lo mette in viaggio frenetico cercando di visitare tutti i luoghi che non aveva visto in gioventù. A sessant’anni ha viaggiato in tutto il mondo ma ha perso la capacità di sognare e, quindi, di ricordare. Cercando di riconquistarlo, si reca nella città in cui è nato solo per rendersi conto che ne ha perso i ricordi. In effetti, ha perso completamente la memoria. Presto perderà le immagini dei suoi sogni e si ritroverà seduto al binario della stazione a fissare senza spirito l’incomprensibile vista dei treni che passano, una spettrale figurazione del proprio vuoto.

La maggior parte delle storie di questo libro sono resoconti ironici della sottile linea che separa sogno e incubo. L’occhio ammiccante di Monzó è a tratti un invito a sviluppare l’energia libidica nella nostra vita quotidiana invece di spostarla negli appagamenti onirici delle nostre fantasie più o meno nevrotiche. C’è un equilibrato tentativo di combinare il proprio interesse per l’assurdo e la psicoanalisi con le esigenze teoriche del testualismo post-strutturale in questa breve ma ricca raccolta, nella quale Monzó riesce a trasporre la potenza della diversità di desideri in una rappresentazione ludica che è anche parodia testuale (del tentativo costante di soddisfarli) e personale.

La noia opprimente e il terrore in agguato nel cuore della routine quotidiana attanagliano i personaggi perversi e disamorati di questi racconti. In “Nord del sud“, un uomo in procinto di sposarsi anticipa mentalmente ogni fase del matrimonio, passando in maniera ossessiva dai momenti opprimenti alla rottura al ricongiungimento; in “Cacofonia” l’idea stessa dell’esistenza di una routine, incarnata qui dallo scandire dei semafori, provoca nel protagonista il folle desiderio di guidare nella direzione sbagliata sulla Balmes col solo intento di frantumare lo specchio opaco di quella routine.

Come Antonioni, Monzó canta l’incomunicabilità, i personaggi dei suoi racconti sono spesso incapaci di dialogare e interrompono semmai i propri reciproci monologhi, come accade nel racconto “Gemelli”, in cui i due fratelli dividono, condividono e sono al contempo divisi da una donna comune, o come si vede nella disastrosa sequenza di appuntamenti disattesi in “Quattro quarti”.

Monzó è figlio di Kafka nella misura in cui la pletora dei propri protagonisti alienati è presentata tramite iniziali, piuttosto che per nome, e in cui questi si ritrovano calati in un contesto ordinario che si tinge di grottesco e in cui ogni situazione è surreale. Monzó compie questa operazione attingendo al contempo anche alla ricca tradizione del surrealismo spagnolo, animato da un senso paranoico di minaccia insita nelle cose apparentemente ordinarie – c’è una macchina da scrivere che esplode e un rasoio elettrico che fa crescere le zanne – e sostenendo così la qualità a intermittenza lirica e visionaria della propria immaginazione.

Molto più cannibale dei nostri cannibali (non foss’altro che la sua crescita scrittoriale risulterà negli anni organica ai propri stilemi narrativi, conferendogli una voce unica; e mi piacerebbe sapere se Aldo Nove lo aveva già letto, prima di scrivere Woobinda), Monzó è a oggi uno degli scrittori che nei propri racconti hanno meglio decodificato la contemporaneità, beatnik disilluso e post-moderno che con sguardo kafkiano ha denudato il non-sense di cui si popola il nostro vivere quotidiano.

Exit mobile version